Alle regole e alle logiche del pricing non sfuggono neanche i servizi. E’ noto che il tema suscita diffidenza in una buona fetta di titolari, pessimisti rispetto alla possibilità che gli italiani, in un momento di crisi come questo, possano spendere per una Moc o una spirometria. In realtà, valgono le stesse considerazioni che facevo negli articoli precedenti per rispondere a chi contestava l’idea che oggi i prezzi in farmacia possano anche essere alzati: il reddito procapite degli italiani, dicono costoro, è tornato ai livelli del 1999, quindi siamo più poveri di 15 anni fa. Certo questo è vero. Ma le sigarette dimostrano che crescita e acquisti non vanno sempre a braccetto: il mercato americano del tabacco fece registrare tra il 1982 e il 1992 una crescita dei prezzi del 139%. Il tasso di incremento annuo toccava il 9%, a fronte di un indice dei prezzi al consumo che aumentava solo del 4%. E ciò in un contesto di contrazione del mercato, che nello stesso periodo diminuì a volumi del 21%. Non è quindi vero che l’unico modo per contrastare il calo della domanda sia abbassare i prezzi.
Come ho già detto, il prezzo di un prodotto o un servizio rappresenta il sacrificio economico che il cliente è pronto ad affrontare per averlo; generalmente, il cliente compra soltanto se percepisce che il prodotto/servizio ha un valore superiore al prezzo al quale è venduto. Lo schema 1 mostra come il prezzo di un prodotto/servizio assicura redditività soltanto quando alcuni parametri rimangono all’interno di determinati valori (rettangolo giallo): prezzo di vendita meno costo di erogazione moltiplicato per volume. Nel triangolo A c’è perdita di redditività perché il prezzo al quale il prodotto/servizio viene venduto lascia fuori quei clienti che non comprano perché troppo alto (comprerebbero se fosse più basso). Anche nel triangolo B c’è perdita di redditività ma per il motivo opposto: qui infatti si collocano i clienti che avrebbero comprato anche a un prezzo superiore, dal quale maggiori ricavi.
Lo schema, in sostanza, dimostra che una strategia di prezzi differenziati aiuterebbe a trarre redditività anche dai clienti delle aree A e B, cosa che non sarebbe possibile con una strategia di prezzo unico. Prendiamo lo screening dell’osteoporosi, che oggi è offerto in moltissime farmacie italiane. L’esame è effettuato da un tecnico specializzato, che rilascia al cliente un referto da consegnare al medico curante per la lettura. Se il servizio venisse venduto a un prezzo unico di 15 euro e fossero 50 i clienti che si sottopongono all’esame, la farmacia incasserebbe 750 euro (schema 2, rettangolo blu). Se invece, fatto tesoro dello schema 1, la farmacia differenziasse il servizio, raccoglierebbe adesioni anche dai clienti dei triangoli A e B. Come? Basta aguzzare l’ingegno: si può per esempio offrire l’esame a 70 euro aggiungendo l’opzione del referto trasmesso in telemedicina al medico curante; oppure a 10 euro con l’emissione del solo referto da parte del tecnico e a 15 aggiungendo un integratore in omaggio più consulenza del farmacista.
Lo schema 3 dimostra come prezzi differenziati accrescono le chance di vendita: dieci persone potrebbero richiedere il servizio con telemedicina (10 x 70 = 700 euro), altre trenta lo richiedono con integratore e consiglio del farmacista (30 x 15 = 450 euro) e 45 persone si “accontentano” della configurazione minima (45 x 10 = 450 euro). Il risultato, ovviamente, è una redditività maggiore, perché il prezzo differenziato segue la curva della domanda.