Alzi la mano il farmacista che davanti alla possibilità di consigliare al cliente un acquisto complementare non si è mai “autocensurato”. In primo luogo c’è chi evita il consiglio complementare per rendere più veloce il servizio al banco: soprattutto quando inizia a formarsi la fila, si tende a lavorare “in automatico”. Non va dimenticato però che l’esperienza del cliente, il giudizio che avrà di noi, non dipende solo dalla rapidità del servizio ma soprattutto dalla qualità del consiglio che siamo in grado di fornirgli. La farmacia non deve diventare un fast-food del farmaco.
Un altro motivo di rinuncia è legato a remore etiche: il consiglio complementare viene spesso vissuto come un atto commerciale, quindi svilente per il professionista.
Qui però si dimentica che l’etica non riguarda la proposta in sé ma il suo oggetto: se un prodotto viene considerato di scarsa qualità, o le politiche commerciali e di marketing della ditta produttrice non ci rappresentano, non deve essere proposto, anzi andrebbe escluso dall’assortimento. La politica del “bisogna avere tutto” per non perdere nessuna vendita è ormai superata: l’assortimento comunica chi siamo, ci distingue e ci qualifica. Se un prodotto ha superato la validazione del farmacista, nessun timore nel proporlo: le sue qualità rispecchiano i nostri valori ed entrambi debbono essere condivisi con il maggior numero possibile di clienti.
Una terza spiegazione della fatica con cui molti farmacisti consigliano nasce dalla nostra tendenza a fare i conti in tasca ai clienti: non proponiamo perché decidiamo arbitrariamente che il cliente di fronte a noi vuole spendere il meno possibile. Ma è poi proprio così? Prendiamo il mercato dei telefoni cellulari: esistono in commercio modelli da poche decine di euro e altri che costano dieci volte tanto. Quando compra, il consumatore opta sempre e solo per il più economico oppure la sua prima richiesta è quella di poter scegliere? Ricordiamo che il nostro ruolo è proporre, non imporre. Sarà poi il cliente a prendere una decisione.
A volte, infine, evitiamo il consiglio complementare semplicemente perché non ci piace ricevere un no dal cliente. Sarebbe però sbagliato scoraggiarsi quando accade. Se il paziente non pare convinto e dice di voler prima chiedere un parere al suo medico, oppure avanza considerazioni di carattere economico, non sentiamoci offesi: lasciamolo libero di esprimersi, incoraggiamolo anzi con domande aperte; sarà lui stesso a rivelare i reali motivi del suo rifiuto. Se questo non servirà a cambiare l’esito della proposta, ci permetterà comunque di capire se abbiamo commesso degli errori di comunicazione da non ripetere. Per esperienza, una buona prassi è quella di chiedere un feedback al cliente: proponiamogli di tornare in farmacia per condividere l’evoluzione del suo caso e riserviamo magari un consiglio complementare a questa seconda fase; il nostro interesse nei suoi confronti è un’ottima leva per sviluppare una fiducia da consolidare nel tempo.
Ricordiamoci anche, però, che il consiglio complementare non è un modo per svuotare il magazzino o rimediare a un ordine scriteriato: grazie ai nuovi media, oggi il cliente può reperire velocemente molte informazioni su farmaci, integratori e cosmetici; il nostro consiglio deve essere in grado di distinguersi per appropriatezza e qualità dei contenuti.