Pfizer che prova ad acquistare Astrazeneca e poi rinuncia, Gsk che si prende la divisione vaccini di Novartis, la canadese Valeant che lancia un’offerta per assicurarsi il controllo dell’americana Allergan. Sono solo alcuni esempi del fermento che nelle ultime settimane ha contraddistinto il comparto farmaceutico industriale: fusioni, acquisizioni, scambi di pacchetti azionari o di divisioni operative. Il fatto però è che nel “pharma” non ribolle soltanto il segmento della produzione. In Italia, c’è forte movimento anche nel settore della distribuzione intermedia. Acquisizioni, fusioni, cessioni di rami operativi. Spesso tenute riservate o poco pubblicizzate perché dietro ci sono più le dinamiche della crisi che quelle del capitale. Qualche operazione però fa comunque notizia: Comifar che ad aprile acquista Unioneffe (vedi articolo di Pharmaretail), Unifarm che prima prova a fare shopping in Sicilia e poi si ritira in buon ordine, Unico che completa l’acquisizione di una cooperativa laziale. E sono solo alcuni esempi, perché altre operazioni risultano in corso e tra gli addetti ai lavori è opinione diffusa che il periodo degli acquisti non è per nulla concluso.
Che sta succedendo allora nella distribuzione italiana del farmaco? A tutti gli effetti, si è di fronte a un fenomeno di concentrazione del mercato innescato da due ordini di cause, endogene ed esogene. Tra le prime, come già anticipato, c’è la contingenza: la crisi di liquidità e capitalizzazione che caratterizza da qualche anno un numero crescente di farmacie ha ormai contagiato il comparto della distribuzione intermedia. I grossisti, in sostanza, fanno sempre più fatica a rientrare dei loro crediti e i nuovi margini di legge (ritoccati al ribasso di tre punti percentuali nel 2010) hanno annullato ogni riserva di ossigeno. «Dobbiamo fare i conti con una forte erosione dei margini anche se lavoriamo più di prima e quindi i costi aumentano» spiega il presidente di Unifarm, Luca Collareta. E in questo scenario, l’unica salvezza sta nella crescita: «Aumentare di dimensione» riprende Collareta «è la sola opzione percorribile: si allargano i volumi e si razionalizzano i costi». Aiuta la fisionomia del mercato italiano, ancora popolato da un numero eccessivo di grossisti: «Alla fine il sistema non potrà reggerne più di una trentina» è la valutazione di Collareta «e rispetto ad altri paesi dell’Ue saranno ancora tanti».
Poi ci sono le cause esogene. Che riconducono principalmente all’industria farmaceutica. Dove è crescente la tendenza privilegiare i grossisti di dimensioni nazionali, per razionalizazioni commerciali ma anche perché c’è la convinzione che così è più facile arginare il fenoimeno dell’export parallelo. «Questa è la direzione di marcia» ammette Antonello Mirone, presidente di Federfarma Servizi «tanto è vero che come associazione abbiamo deciso di rispondere a questa tendenza mettendo in campo una piattaforma di livello nazionale, gestita da Federfarma.co, che lavora per tutte le cooperative della nostra associazione (è la piattaforma di Carpiano, nel milanese, ex Farmintesa, ndr). L’industria pare ben disposta anche perché a supporto siamo anche pronti a firmare con i produttori un protocollo per tracciare il percorso del farmaco fino al consumatore finale, in modo da garantirne la permanenza sul mercato italiano».
Ma l’industria guarderebbe con favore a un consolidamento del comparto intermedio anche per le crescenti proeccupazioni sulla tenuta delle farmacie: un peggioramento del quadro economico complessivo potrebbe rendere l’Italia terra di facili conquiste per le multinazionali della distribuzione europea (da Alliance Boots a Celesio), che farebbero incetta di punti vendita attraverso le varie formule del franchising . Oppure, potrebbero andare a bussare alla porta della politica, mettere sul tavolo i debiti delle farmacie e chiedere la legalizzazione delle catene all’inglese per scongiurare il fallimento di qualche migliaio di presidi. «E’ uno scenario non impossibile» ammette Collareta «ma prima viene un’altra questione: il sistema deve rendersi conto che oggi la capillarità ha un costo. Se la si considera un valore, si deve accettare il fatto che c’è da pagare per averla». «Di certo l’industria non vede con favore l’eventualità di un arrivo delle catene in Italia» rincara Mirone «ma preoccupa anche l’indebitamento delle farmacie. Avere a che fare con un soggetto solido e autorevole, capace di garantire la solvibilità dei presidi associati, è un’opzione che i direttori finanziari delle industrie non sottovalutano». «Non dimentichiamo neanche il peso del marketing» conclude Collareta «per un’azienda trattare con un distributore nazionale che mette in fila diverse centinaia di farmacie vuole dire mettere in campo strategie dirette a fare push e volumi su larga scala con i propri blockbuster. E non è cosa da poco».
Grossisti alla sfida delle concentrazioni
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